La fotografia si nutre di luce e di ombre dove la verità è sempre una finzione
Holga, la perfida
C’è qualcosa che attrae perfino nella banalità, in ciò che può sembrare privo della minima attenzione, nell’assenza di originalità. Eppure non rappresenta tutta la verità: spesso il rifiuto nei confronti di quello che a noi appare “banale” si accompagnasse anche un sentimento di ripulsa, di maleficio. Mi son chiesto spesso come “catturare” tutto questo dal punto di vista fotografico, ma la risposta non è mai stata univoca: sia prima dell’avvento del digitale con le perfette Nikon che dopo con i milioni di megapixel e con le possibilità offerte dai programmi come Photoshop, la banalità era fin troppo perfetta, talmente “perfetta” da sembrare perfettamente falsa. Allora, ho guardato altrove. La scelta è caduta sulla piccola Holga, una fotocamera tutta di plastica, obiettivo compreso, nata in Cina negli anni ’60, pellicole 120, con lo scopo quasi esclusivo di consentire alla classe operaia e contadina di riprendere le proprie scene domestiche, le proprie cerimonie, i propri eventi familiari. Un po’ come dire, il massimo della banalità ripetuta in serie. Invece, Holga la perfida, mostra sì la scena banale inquadrata, ma aggiunge di suo qualcosa di non detto, di sfuggente, di sibillino, di “strano”, come a dire: ecco, il lato oscuro e misterioso della banalità.